CONTRIBUTO A FONDO PERDUTO ANCHE PER GLI AGENTI DI COMMERCIO….PRIMA ESCLUSI

Circolare n. 22 E (punto 2.9) dell’Agenzia delle Entrate

Quesito

Il comma 1 dell’articolo 25, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 prevede tra i 12 soggetti inclusi alla fruizione del contributo a fondo perduto «… i soggetti esercenti attività d’impresa e di lavoro autonomo […] titolari di partita IVA […]». Al comma 2, tuttavia, stabilisce contestualmente l’esclusione dal suddetto fondo dei «professionisti iscritti agli enti di diritto privato di previdenza obbligatoria di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103», tra cui configura anche alla Fondazione Enasarco. Ciò premesso, si chiede se gli Agenti ed i Rappresentanti di commercio (obbligati all’iscrizione presso la Gestione commercianti dell’INPS e alla Fondazione Enasarco), rientrano tra i beneficiari del contributo a fondo perduto di cui al citato articolo 25.

Risposta

Come chiarito nella circolare n. 15/E del 2020, il comma 2 contiene disposizione di chiusura finalizzate a stabilire che il contributo non spetta, tra l’altro, ai professionisti che risultano esclusivamente «[…] iscritti agli enti di diritto privato di previdenza obbligatoria di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103».Pertanto, gli agenti e rappresentati di commercio che producono reddito d’impresa e sono pertanto inclusi nel comma 1 dell’articolo 25 del decreto rilancio e che contestualmente risultano iscritti presso la Gestione commercianti dell’INPS e la Fondazione Enasarco possono comunque fruire del contributo a fondo perduto COVID-19 (fermo restando il rispetto degli ulteriori requisiti previsti) in relazione alle predette attività ammesse al contributo stesso.

LA CONTROVERSA FIGURA DEI PROCACCIATORI D’AFFARI – Corte d’appello di Roma (Sezione Lavoro, Sentenza 23 ottobre 2018, n. 3557)

Il procacciatore d’affari———chi è costui?

L’Enasarco con propria nota definisce il procacciatore come “tutti coloro che svolgono un’attività che, seppur finalizzata alla promozione-conclusione di contratti, è attuata senza i necessari requisiti di stabilità e continuità del rapporto con la Ditta e senza assunzione in proprio del rischio economico“, ma “nel caso in cui il Vostro collaboratore svolga un’attività i cui requisiti sono riconducibili a quelli dell’Agente di Commercio (in particolar modo facendo riferimento alla stabilità dell’incarico) egli può essere considerato a tutti gli effetti un Agente. Infatti la figura del Procacciatore di Affari presume l’assoluta occasionalità della prestazione finalizzata alla promozione di affari. Pertanto anche un ridotto volume di affari, ma ripetuto nel tempo, potrebbe essere valutato in sede di accertamento come la prova dell’esistenza di fatto di un mandato di agenzia“.

E’ opportuno, quindi, per cautelarsi da possibili accertamenti, nel rispetto delle norme, adottare le dovute cautele.

E’ bene riferire però che questi incarichi sono senza alcuna tutela; le imprese, per contro, dovranno tener conto delle possibili implicazioni economiche nei confronti dell’Enasarco in caso di continuità di rapporto.

Ci sono imprese che sistematicamente, per evitare il costo dell’Enasarco, strutturano la loro rete mediante una moltitudine di procacciatori. Ma non sempre ciò è una saggia decisione.

SI RIPORTA UNA INTERESSANTE SENTENZA DELLA CORTE DI APPELLO DI ROMA

1. Oggetto della controversia

In data 25 ottobre 2010, una società subiva l’accertamento ispettivo da parte della Fondazione Enasarco, la quale contestava un’omissione contributiva di euro 41.847,83 per mancati versamenti, per un periodo di cinque anni, sulla retribuzione pagata a tre intermediari di vendita che Enasarco riteneva essere agenti di commercio, benché qualificati dalla mandante come procacciatori d’affari.

In primo grado il Tribunale affermava che la continuità nella trasmissione degli ordini e l’ammontare delle provvigioni non sono, di per sé, indici sufficienti a individuare un contratto di agenzia. Enasarco ricorreva in appello.

 2. Il giudizio in appello

La pronuncia della Corte d’appello di Roma (Sezione Lavoro, Sentenza 23 ottobre 2018, n. 3557) è antitetica rispetto alla sentenza di primo grado: la continuità nella trasmissione degli ordini, l’ammontare delle provvigioni, la durata pluriennale dei rapporti nonché, nel caso di specie, i dati emergenti dal verbale ispettivo dell’Enasarco sono infatti ritenuti sintomatici dell’esistenza di un contratto di agenzia di commercio.

In generale, la Corte rilevava che al rapporto di procacciamento d’affari sono applicabili in via analogica solo le disposizioni relative al contratto di agenzia che sono svincolate dal carattere stabile del rapporto (ad esempio, quelle in materia di provvigioni), ma non le disposizioni – di legge o contrattuali – che invece lo presuppongono. In definitiva, mentre la prestazione dell’agente è per natura stabile, avendo egli l’obbligo di svolgere con continuità l’attività di promozione delle vendite nell’interesse della preponente, la prestazione del procacciatore d’affari è e deve essere del tutto occasionaledipendendo esclusivamente dall’iniziativa dell’intermediario (sul punto, Cassazione civile 8.2.99 n. 1078, Cassazione civile 9.12.2003 n. 18736, Cassazione civile 24.6.2005 n. 13629, Cassazione civile 23.7.2012 n. 12776).

Nella fattispecie oggetto del giudizio, gli intermediari avevano ricevuto dalla società mandante una lettera di incarico per procacciatore di affari, sottoscritta per accettazione.

Tuttavia, come la Corte precisa, “la formale stipula tra le parti di un contratto qualificato come procacciamento od altro tipo non è decisiva, poiché pertiene al Giudice la qualificazione giuridica della fattispecie, alla stregua delle modalità concrete di attuazione del rapporto, la cui esecuzione si protragga nel tempo (cfr. ex plurimis Cassazione, 30.8.2007, n. 18303; Cassazione 23.7.2012, n. 12776)”.

3. La clausola incriminata

L’elemento che ha fatto propendere la Corte d’appello in maniera decisiva per la qualificazione degli intermediari come agenti è la previsione contenuta nell’articolo 2 della lettera di incarico che, pur formalmente ribadendo la precarietà del mandato e la possibilità di scioglimento dello stesso in qualsiasi momento da entrambe le parti, esplicita in realtà un vincolo di carattere non occasionale, imponendo una particolare obbligazione di durata a carico del procacciatore

La clausola prevede infatti che “le parti si impegnano a fare in modo che l’eventuale scioglimento del rapporto avvenga tenendo conto della stagionalità delle linee dei prodotti e dunque solamente al termine della stagione estiva o invernale”.

Tale pattuizione manifesta l’intenzione delle parti di assumere un impegno connotato da stabilità e da continuità e, pertanto, estraneo al rapporto di procacciamento di affari contraddistinto dall’occasionalità dell’impegno e dalla libera iniziativa del procacciatore. 

La Corte d’appello considerava inoltre indice della continuità dell’attività oggetto del contratto e del giudizio, il fatto che i tre intermediari risultassero da diversi anni iscritti all’Enasarco in qualità di agenti.

In conclusione, la Corte d’Appello riformava totalmente la sentenza di primo grado e condannava l’impresa a pagare all’Enasarco i contributi non versati sulle provvigioni degli agenti.

I SILENTI, TERMINE TANTO STRANO, MA TANTO ATTUALE

Il diritto alla pensione è previsto dalla Costituzione.
Tale diritto viene esercitato previo accantonamento di fondi che allo scattare dei requisiti si trasformano in forma assistenziale: la pensione.
L’accantonamento serve per formare quel monte economico che sarà la base per la nostra futura pensione.
Si sa che in Italia il lavoro su una chimera è portare a termine il percorso lavorativo è diventato sempre piu arduo. Ma cosa succede se ad un certo punto non riesco più ad inserirmi nel mondo del l’avrò di agente di commercio? Quel monte di accantonamenti crolla inesorabilmente. La tua pensione concorrerà non già a formare quel diritto sancito dalla Costituzione, ma finirà per costituire il nulla assoluto.
Si chiama Previdenza integrativa, ma obbligatoria. E già questo cosa è una stortura perché se fosse integrativa, ma obbligatoria potrei anche avere un diritto di scelta, ma non ce l’ho.
E cosa succede se non risco più ad inserirmi nel mondo del lavoro dell’agenzia commerciale?
Non solo vengo punito dal mondo del lavoro, da settore, ma anche da quell’Ente previdenziale integrativo, ma obbligatorio, che avrebbe dovuto tutelarmi. Dammi là possibilità di far confluire i versamenti nell’INPS, magari trattenendoti qualcosa, NO.
Dammi indietro la metà così posso ripartire con una piccola impresa mia, NO. Fammi da garante per un finanziamento per ripartire, NO.
E allora dico io di NO! Non ci sto. Le regole devono cambiare, e questo è il momento storico adatto.
ANDIAMO AVANTI

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 agosto 2018, n. 20453 – ATTIVITÀ DI PROMOZIONE DEVE ESSERE EFFETTIVA

Fatti di causa

Il giudice del lavoro di Modena rigettava la domanda proposta da M. S., volta ad ottenere la condanna della convenuta G. s.a. al pagamento dell’indennità di fine rapporto e dei danni da recesso illegittimo, sul presupposto della conclusione tra le parti di un contratto di agenzia. Tale rigetto veniva appellato dalla M., sostenendo l’erroneità della gravata pronuncia, che senza adeguata motivazione aveva escluso nella specie la configurabilità di un rapporto di agenzia desumibile, invece, dal contenuto del contratto di prestazione di servizi, dai servizi resi e dalle modalità di calcolo del compenso.

La Corte d’Appello di Bologna con sentenza n. 675 in data 11 ottobre / 13 novembre 2012 rigettava l’interposto gravame, disattendendo in via preliminare l’eccezione di nullità dell’impugnazione, osservando tra l’altro che nella specie era pacifico che l’attività principale e assolutamente prevalente espletata dall’attrice fosse la creazione, l’organizzazione e il controllo della rete commerciale, laddove i contatti con i clienti, e quindi lo specifico lavoro di promozione delle vendite, aveva carattere residuale ed anzi sporadico, all’uopo richiamando l’interrogatorio libero reso dalla stessa M.. Né d’altra parte era possibile configurare un contratto di agenzia in presenza di incarichi accessori ed in cui mancava il contenuto principale dell’attività di promozione della vendita presso i clienti. Gli incarichi accessori, come il coordinamento di altri agenti, non snaturavano il rapporto di agenzia, per la cui configurabilità non poteva comunque prescindersi dalla prestazione principale, però nel caso di specie mancante. Al riguardo venivano richiamati il principio secondo cui il requisito del carattere prevalentemente personale dell’attività dell’agente – con conseguente riconducibilità del rapporto nello schema della parasubordinazione ai sensi dell’articolo 409 numero tre c.p.c. – è configurabile anche nel caso in cui il preposto associ alla propria prestazione personale di agente una ulteriore prestazione, costituita dall’attività di coordinamento di altri agenti dello stesso preponente (ai cui scopi è funzionale tale ulteriori attività) e compensata con una percentuale sulle provvigioni dovute agli agenti coordinati (Cass. n. 687/94). Inoltre, con particolare riferimento all’ipotesi in cui l’agente eserciti un’opera di reclutamento, formazione e coordinamento dell’attività di altri agenti e questi siano legati da diretto rapporto non con il coordinatore, ma con la società preponente, si è ritenuto di poter ravvisare una prestazione di carattere personale, “configurandosi l’opera predetta come integrativa di quella principale (diretta alla conclusione degli affari nella preponente)” (Cass. 8148/92). Pertanto, risultava infondata la pretesa dell’appellante di qualificare come agenzia il rapporto in questione. Ed in considerazione del pacifico difetto dell’attività principale, qualificante il contratto di agenzia, correttamente erano già state ritenute irrilevanti le prove testimoniali dedotte.

Avviso la sentenza di appello M. S., quale titolare della Agenzia Commerciale Moda A.C.M., con sede in Roma al viale Regina Margherita 1, ha proposto ricorso per cassazione come da atto notificato il 9 maggio 2013, affidato a quattro motivi, cui ha resistito la società G. S.A. con sede in Erandio – Bilbao (Spagna), mediante controricorso in data 18 giugno 2013 (procura speciale autenticata da notaio spagnolo – traduzione italiana asseverata presso ufficio giudice di pace Verona il 4 giugno 2013 – con apostille ex convenzione de L’Aja 5 ottobre 1961). Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Ragioni della decisione

Prima ancora di esaminare i motivi di ricorso, va respinta la preliminare eccezione opposta dalla controricorrente, secondo cui mancherebbe la firma della ricorrente in calce alla procura speciale come da copia del ricorso notificato alla società. Infatti, l’originale dell’atto, depositato per l’ufficio (cfr. in part. pagine da 70 a 72), datato sei maggio 2013 reca la sottoscrizione dell’avv. Corrado Spaggiari del foro di Reggio Emilia (cassazionista), seguita da Procura Speciale con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell’avv. Maurizio de Stefano, cui ampio mandato veniva conferito disgiuntamente insieme all’avv. Marzia Fusi del foro di Modena ed al suddetto avv. C. Spaggiari, con il calce altresì la firma autografa di M. S., quale titolare dell’agenzia commerciale Moda di Musi S., autenticata quindi mediante sottoscrizioni dei suddetti avv.ti C. Spaggiari e M. Musi, il tutto seguito dalla relata di notifica in data 9 maggio 2013.

Ciò premesso, con il 1° motivo di ricorso è stato denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. (contestandosi la motivazione dell’impugnata sentenza, nonché con la seconda parte B la omessa analisi /valutazione circa la creazione da parte ricorrente del mercato italiano e circa la corresponsione di provvigioni sulla merce venduta – era stata ACM ad introdurre G. nel mercato italiano, impresa del tutto assente in precedenza, prima dell’anno 1999 – vendite operate sul territorio nazionale a mezzo ACM secondo gli importi specificante indicati dal 2000 per ciascun anno sino alla primavera / estate del 2006. Inoltre, ai sensi dell’art. III comma I del contratto era previsto che ACM percepisse esclusivamente come remunerazione per la creazione della Rete Commerciale Agenti e per la sua gestione, controllo e motivazione, una percentuale in conformità con l’indicata scaletta, sul prezzo delle vendite, in condizione ex-works, perfezionata e pagata da G., che fossero state concluse grazie al lavoro svolto per la rete di Agenti captati da ACM per G.; percentuale nella quale era incluso l’importo corrispondente ad ogni nuovo contratto di agenzia firmato da G. e concluso grazie la lavoro svolto da ACM. Per di più la stessa G. non aveva mai smentito o contestato tali circostanze e all’udienza del 20 giugno 2007 aveva anche versato la somma di € 34.586,21 a titolo di provvigioni – fatti omessi dalla Corte territoriale. Dunque, era stato omesso l’esame della circostanza per cui era stata ACM ad introdurre nel mercato italiano la ditta mandante, nonché del fatto che la M. veniva retribuita con provvigioni sulla merce venduta, sicché con motivazione viziata era stata esclusa l’esistenza del contratto di agenzia C omessa analisi / valutazione del testo inerente al “contratto di prestazione di servizi”, laddove l’omessa analisi del suo contenuto aveva quindi indotto la Corte d’Appello ad una erronea valutazione del rapporto negoziale in questione).

Con 2° motivo la ricorrente ha denunciato la Insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione – art. 360 n. 4 – in relazione all’art. 132 c.p.c.. Tra l’altro, la ricorrente aveva avuto modo di precisare personalmente nel corso del primo grado di giudizio, senza essere smentita, che lavoro svolto a favore della G. per sei anni consecutivi aveva impegnato circa il 70% della sua intera attività; che detta attività veniva svolta dalla propria agenzia in piena autonomia e che il rischio di tali attività gravava tutto sull’agente.

Se, quindi, la Corte di merito avesse considerato e valorizzato i fatti di causa sarebbe certamente giunta alla conclusione che la ricorrente svolgeva prevalentemente, stabilmente ed in piena autonomia organizzativa, nonché con rischio reddituale a proprio carico, attività di promozione delle vendite, sicché era da considerarsi a tutti gli effetti una agente ai sensi dell’articolo 1742 del codice civile.

Con il 3° la ricorrente ha lamentato violazione o falsa applicazione dell’articolo 1742 c.c., in relazione all’articolo 360 n. 3 c.p.c., censurando l’argomentazione svolta dalla Corte territoriale, secondo cui l’operato di essa M. non era riconducibile a quanto previsto dall’articolo 1742, pur avendo la stessa creato, organizzato e controllato la rete commerciale di G., perché non vi era stata un’attività di convincimento del potenziale cliente, all’attività di promozione, dietro corrispettivo, in ordine alla conclusione di contratti in una certa zona, contratti quindi anche diversi dalla compravendita, sicché la promozione può aver luogo in qualunque forma ed anche in modo indiretto. L’attività tipica dell’agente non richiede quindi, necessariamente, la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile la prestazione dedotta nel contratto, anche quando il cliente, da cui proviene la proposta di contratto trasmessa dall’agente, non sia stato direttamente ricercato da quest’ultimo, ma risulti acquisito tramite altri agenti individuati coordinati dallo stesso. Di conseguenza, secondo parte ricorrente, ai sensi del citato art. 1742 non rilevano le particolari modalità di acquisizione della clientela, a favore della preponente, potendo l’agente provvedere a contattare i potenziali clienti tanto con la loro ricerca attraverso visite personali quanto a mezzo della rete di agenti dallo stesso creata. Nel caso in esame il contratto intercorso tra le parti prevedeva all’articolo 1, relativamente all’oggetto dello stesso, la creazione, lo sviluppo e il controllo nonché il seguimento della rete commerciale di G. in Italia mediante la ricerca la selezione e la presentazione di agenti da parte di A.C.M. a G., con la finalità che dopo l’approvazione e la conformità da parte della società dei corrispondenti contratti, (tali agenti) passassero ad integrare la rete di agenti G. in Italia. A.C.M. ugualmente si impegnava a realizzare il controllo, seguimento e motivazione della rete di agenti in Italia, tutto ciò con la finalità di incrementare la presenza e la vendita di G. in detto territorio tramite la rete commerciale a tal fine creata. Inoltre, A.C.M. non avrebbe potuto esercitare l’attività e le funzioni definite nel contratto fuori dal territorio compreso in Italia. Pertanto, alla stregua di quanto previsto in contratto, secondo la ricorrente era evidente che lo stesso rientrava a pieno titolo tra quelli di agenzia, poiché l’attività promozionale della M. a favore di G. veniva esercitata attraverso altri agenti ricercati e selezionati dalla ricorrente, in base a quanto in proposito ritenuto certamente possibile da dottrina e giurisprudenza.

Con il 4° motivo di ricorso è stata, infine, dedotta la nullità del procedimento – art. 360 n. 4 c.p.c. – omesso esame della domanda di pagamento relativa a provvigioni dovute in ragione di complessivi 410.784,77 euro (da cui detrarre la somma di 34.586,21 euro versati da G. all’udienza del 20-06-2007 in primo grado, trattenuti dalla ricorrente a titolo di acconto, con conseguente differenza a credito pari a 376.198,56 euro), essendosi limitata a esaminare la domanda di condanna la pagamento dell’indennità di per cessazione del dedotto rapporto di agenzia, così restringendo il suo esame al problema della qualificazione del rapporto contrattuale. Le provvigioni rivendicate traevano origine e titolo dal contratto a suo tempo sottoscritto dalle parti e non dipendevano dalla qualificazione del rapporto negoziale, sicché tali provvigioni erano dovute da parte convenuta a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto. Non vi era stata comunque alcuna contestazione circa la validità del contratto sottoscritto dalle parti.

Tanto premesso, il ricorso va disatteso, risultando l’atto in larga parte inammissibile ed in parte altresì infondato, alla luce delle seguenti considerazioni.

L’atto difetta, in primo luogo, di adeguate e sufficienti allegazioni, in violazione in particolare di quanto invece prescritto a pena d’inammissibilità dall’art. 366, co. 1 nn. 3 e 6, c.p.c.. Mancano, in particolare, una esauriente esposizione di quanto dedotto con il ricorso introduttivo del giudizio (non bastando di certo le sole conclusioni di merito ed istruttorie ivi formulate), con la memoria difensiva della convenuta (di modo che non è nemmeno possibile desumere significative e rilevanti omesse contestazioni) e con la sentenza (di rigetto) pronunciata dal giudice di primo grado (anch’essa rilevante per poter appieno comprendere le ragioni della pronuncia di appello, che la confermava con il rigetto dell’interposto gravame, sicché le argomentazioni svolte con la prima vanno necessariamente lette insieme alle motivazioni integratrici della seconda – v. sul punto in part. Cass. sez. un. civ. n. 7074 del 20/03/2017, secondo cui ove la sentenza di appello sia motivata “per relationem” alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, c.p.c. occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonché le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali.

Parimenti, secondo Cass. lav. n. 25482 del 02/12/2014, il principio di autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione trova applicazione anche con riferimento alla violazione di norme processuali – v. ancora Cass. Ili civ. n. 10605 del 30/04/2010, secondo cui ai fini della ammissibilità del motivo con il quale si lamenta un vizio del procedimento ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. è necessario che il ricorrente, alla luce del principio di autosufficienza dell’impugnazione, indichi le espressioni con cui detta deduzione è stata formulata nel giudizio di merito, non potendo a tal fine limitarsi ad asserire che si tratti di fatto pacifico, allorché neppure individui l’allegazione con la quale esso sarebbe stato introdotto e mantenuto nella controversia, posto che è pacifico soltanto il fatto che la parte abbia allegato, in modo tale che la controparte possa ammetterlo direttamente ed espressamente oppure in modo indiretto, attraverso l’affermazione di un fatto che lo presupponga – Cass. V civ. n. 12664 del 20/07/2012: il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo – Cass. lav. n. 896 del 17/01/2014 in tema di errores in procedendo ha inoltre chiarito che il potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda presuppone ad ogni modo la rituale formulazione della censura, rispettando, in particolare, il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione, in quanto l’esame diretto degli atti e dei documenti è circoscritto a quelli che la parte abbia specificamente indicato ed allegato).

Nella specie, inoltre, l’anzidetto principio di autosufficienza non risulta osservato nemmeno riguardo al ricorso d’appello (che devolve la cognizione della causa nei soli limiti di quanto all’uopo dedotto nei relativi motivi, tenuto conto delle previsioni di legge in materia, specialmente agli artt. 112 e 434 c.p.c., di guisa che l’appello costituisce rimedio processuale da intendere soltanto come revisio prioris instantiae e non già quale novum judicium. Cfr. Cass. lav. n. 4854 del 28/02/2014. V. inoltre, tra le altre, Cass. IlI civ. n, 1108 del 20/01/2006: anche nel rito del lavoro l’appello non ha effetto pienamente devolutivo, e, pertanto, ai sensi degli artt. 434, 342 e 346 cod. proc. civ., il giudice del gravame può conoscere della controversia dibattuta in primo grado solo attraverso l’esame delle specifiche censure mosse dall’appellante, attraverso la cui formulazione si consuma il diritto di impugnazione, e non può estendere l’indagine su punti della sentenza di primo grado che non siano stati investiti, neanche implicitamente, da alcuna doglianza, per cui deve ritenersi formato il giudicato interno – rilevabile anche d’ufficio – in ordine alle circostanze poste dal giudice di primo grado alla base della sua decisione in relazione alle quali non siano stati formulati specifici motivi di appello. Conformi Cass. nn. 10937 e 14507 del 2003. V. altresì Cass. II civ. n. 11935 in data 08/08/2002 e Cass. lav. n. 18722 del 16/09/2004 nonché n. 7208 del 15/04/2004. Cfr. inoltre Cass. IlI civ. n. 85 del 10/01/1975: i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, statuizioni e questioni che hanno formato oggetto di gravame con l’atto di appello, talché nel giudizio di cassazione non possono essere prospettate per la prima volta questioni nuove o nuovi temi di contestazione involgenti accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito. In senso analogo Cass. lav. n. 1170 – 08/03/1978, Cass. II civ. n. 402 del 19/01/1979, id. n. 4486 del 08/07/1981, id. n. 188 del 14/01/1977).

Né alcuna sanatoria è in proposito ricavabile dalla lettura della sentenza impugnata, ovvero di altri atti processuali. Infatti, per soddisfare il requisito imposto dall’articolo 366, comma primo n. 3, cod. proc. civ. il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. II civ. n. 7825 del 04/04/2006, conformi Cass. nn. 16360 del 2004, 12166 e 19788 del 2005. V. altresì più recentemente in senso analogo Cass. VI civ. – 3 n. 1926 del 03/02/2015,1 civ. n. 19018 del 31/07/2017, id. n. 12688 del 30/05/2007). Parimenti dicasi per le memorie ex art. 378 c.p.c., che come è noto hanno funzione soltanto illustrativa rispetto a quanto però già in precedenza ritualmente e tempestivamente dedotto.

Sono, dunque, in primo luogo palesemente inammissibili le doglianze mosse con il secondo e con il quarto motivo, siccome attinenti a pretesi errores in procedendo, per difetto dei requisiti richiesti dall’art. 366 comma 1 nn. 3 e 6 del codice di rito, non essendo stati forniti idonei e sufficienti elementi di cognizione da cui poter rilevare, eventualmente, i vizi ivi denunciati, tanto più poi in relazione all’asserita omessa pronuncia di cui all’ultima censura, che risulta chiaramente contraddetta dalle risultanze della sentenza de qua, laddove si legge che l’interposto gravame era fondato essenzialmente su un unico motivo, circa la ritenuta esclusione di un rapporto di agenzia. Ne derivava, ovviamente, alla stregua dell’anzidetto limitato effetto devolutivo che la Corte di merito doveva pronunciarsi unicamente sul punto, senza quindi dover riesaminare l’intero contenzioso alla luce pure del diverso rapporto contrattuale opposto da parte convenuta, già resistente a tutte le pretese creditorie ex adverso azionate.

Ed analoghe considerazioni, in termini d’inammissibilità, possono valere per i primi due motivi, con i quali in effetti la ricorrente contesta il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda dell’attrice, che però irritualmente in questa sede di legittimità tende in concreto a svilirne il fondamento; pretesa tanto più nella specie inammissibile nella operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall’attuale e vigente ‘art. 360 n. 5 c.p.c., qui applicabile in relazione a sentenza pronunciata nell’ottobre dell’anno 2012 e pubblicata mediante deposito il successivo 13 novembre (cfr. tra l’altro Cass. IlI civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. -che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex art. 360 n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014).

Va infatti ricordato (cfr. Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016) che in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. I civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007.

Cfr. ancora Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, numero 5), c.p.c., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 – 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale -, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati.

Cass. IlI civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.

In senso analogo si esprimeva anche la più risalente giurisprudenza di legittimità. V. infatti Cass. II civ. n. 2093 del 05/07/1971: il principio sancito dall’art. 115 c.p.c., per cui il giudice deve decidere iuxta alligata et probata, non può dirsi violato quando le prove siano state valutate in un modo piuttosto che in un altro, ovvero quando, nell’esporre le ragioni del suo convincimento, il giudice non richiami e discuta puntualmente tutte le risultanze contrarie a quelle ritenute decisive. Né il travisamento dei fatti può costituire motivo di censura in sede di legittimità se non si risolve in omessa, deficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Cfr. altresì Cass. II civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme – art. 2697 ss.- poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere; non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ.). Pertanto, si appalesa l’inammissibilità delle varie doglianze al riguardo mosse da parte ricorrente.

Parimenti, infine, va osservato in relazione al terzo motivo, una volta accertato il corretto percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito circa la reputata insussistenza nella specie dei caratteri tipici dell’agenzia ex art. 1742 c.c., contratto che tra l’altro “deve essere di, inammissibile la prova testimoniale -salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento – e quella per presunzioni. Nella specie, quindi, in applicazione dell’enunciato principio, veniva confermata la sentenza di merito, la quale aveva escluso che la prova del contratto di agenzia potesse ricavarsi dai documenti comprovanti l’effettuazione delle prestazioni riconducibili al rapporto).

Al riguardo, inoltre – rilevato preliminarmente che non risulta formulata alcuna specifica censura in relazione alla mancata ammissione della prova testimoniale, con riferimento alle previsioni di cui all’art. 244 e ss. c.p.c., e che il principio di autosufficienza – specificità, richiesto dall’art. 366 co. 1 n. 6 c.p.c. non risulta comunque essere stato rispettato riguardo alla non meglio indicata (né altrimenti riassunta nel suo effettivo contenuto e circa la sua provenienza) documentazione contabile, sulla quale pure l’attrice ha fondato la sua pretesa creditoria in relazione al dedotto rapporto contrattuale, che assume doversi qualificare come di agenzia – l’anzidetta doglianza oltre che di conseguenza in parte qua inammissibile, risulta pure infondata per difetto di corrispondenti elementi probatori (cfr. tra le altre Cass. VI civ. 3 n. 19048 del 28/09/2016: il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto – trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso – sicché la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile. In senso analogo v. pure Cass. lav. n. 2966 del 07/02/2011 con riferimento alle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4 del codice di rito. (Conformi Cass. nn. 22303 del 2008 e 15628 del 2009).

La Corte bolognese, comunque, ha correttamente rilevato, in punto di diritto, richiamando la giurisprudenza, che l’attività di promozione rilevante ai fini del contratto di agenzia non può equipararsi a mera propaganda, da cui possa derivare solo indirettamente un incremento delle vendite, ma consistere nell’attività di convincimento del potenziale cliente ad effettuare ordinazioni di prodotti del preponente, poiché è proprio con riguardo queste risultato che viene riconosciuto il compenso, consistente nella provvigione sui contratti conclusi pel tramite dell’agente ed andati a buon fine, ciò del resto in aderenza al dettato normativo ex art. 1742 c.c. (Col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata). Ne deriva che tale tipica configurazione non si attaglia al caso di specie, laddove l’incarico (principale) conferito alla M. consisteva nella creazione di una rete commerciale mediante il reclutamento e la formazione di agenti, i quali di conseguenza avrebbero operato per conto della preponente G., mentre la ricorrente avrebbe avuto in effetti l’ulteriore compito (accessorio), di propaganda e di supporto nei confronti degli agenti. Ed invero il corrispettivo pattuito, in base al contratto di prestazione servizi stipulato il 2 novembre 2000 con la società controricorrente, prevedeva esclusivamente per ACM la remunerazione per la creazione della rete commerciale di agenti e la sua gestione, il controllo e la motivazione, secondo le percentuali di cui alla scala allegata, inerente all’importo delle vendite annuali, sicché le commissioni erano commisurate al volume delle vendite annuali, concluse e perfezionate grazie al lavoro svolto dalla rete di agenti captati da ACM per G., ivi compreso l’importo corrispondente ad ogni nuovo contratto di agenzia firmato da G. e concluso grazie ad ACM. Dunque, il corrispettivo è stato concordato in misura onnicomprensiva, anche per la gestione della rete commerciale, ma senza nessuno specifico e diretto riferimento ai singoli affari conclusi dagli agenti, bensì in relazione all’importo globale delle vendite annuali (per cui in ordine agli scaglioni ivi considerati erano indicate altrettante distinte percentuali di commissioni).

Orbene, questa Corte già con sentenza n. 6482 del 01/04/2004 ha avuto modo di affermare che nel contratto di agenzia la prestazione dell’agente consiste in atti di contenuto vario e non predeterminato che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti in una zona determinata per conto del preponente, quali il compito di propaganda, la predisposizione dei contratti, la ricezione e la trasmissione delle proposte al preponente per l’accettazione;l’attività tipica dell’agente di commercio non richiede, quindi, necessariamente la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile alla prestazione dedotta nel contratto di agenzia anche quando il cliente, da cui proviene la proposta di contratto trasmessa dall’agente, non sia stato direttamente ricercato da quest’ultimo ma risulti acquisito su indicazioni del preponente o in qualsiasi altro modo, purché tuttavia sussista nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la richiesta di provvigione; condizione questa però evidentemente mancante nel caso di specie qui in esame.

Inoltre (v. Cass. lav. n. 6291 del 22/06/1990), l’attività di promozione della conclusione di contratti per conto del preponente, che costituisce l’obbligazione tipica dell’agente, non può consistere in una mera attività di propaganda, da cui possa solo indirettamente derivare un incremento delle vendite, ma deve consistere nell’attività di convincimento del potenziale cliente ad effettuare delle ordinazioni dei prodotti del preponente, atteso che è proprio con riguardo a questo risultato che viene attribuito all’agente il compenso, consistente nella provvigione sui contratti conclusi per suo tramite e andati a buon fine, e che è configurabile l’obbligo – a carico dell’agente medesimo – allo star del credere (di conseguenza, con riferimento al caso nella specie esaminato, quando l’ausiliare di un’impresa farmaceutica si limita a propagandare il prodotto pressi i medici, e quindi a promuovere solo indirettamente – giacché i farmaci non sono acquistati dagli stessi medici- gli affari del preponente, tale ausiliare, comunque venga definito dalle parti, non è un agente, ma un propagandista scientifico, la cui attività può formare oggetto di lavoro subordinato od autonomo, a seconda che siano riscontrabili o meno i caratteri della subordinazione. In senso analogo Cass. lav. n. 6355 del 22/06/1999, secondo cui l’ausiliare di un’impresa farmaceutica si limita a propagandare il prodotto presso i medici, e quindi a promuovere solo indirettamente gli affari del preponente, sicché tale ausiliare non è un agente ma un propagandista scientifico, la cui attività può formare oggetto di lavoro subordinato od autonomo o talora può aggiungersi a quella di agente, Quando Questi curi anche la stipulazione dei singoli contratti. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 18686 – 08/07/2008, che quindi escludeva il diritto alle provvigioni ove i prodotti della preponente vengano offerti a enti e soggetti pubblici, nella specie, strutture ospedaliere o aziende sanitarie pubbliche, non essendo ipotizzabile un convincimento ad ordinare il prodotto, ma mera propaganda, atteso il vincolo delle amministrative di evidenza pubblica in materia di conclusione di contratti.

Cfr. peraltro anche Cass. lav. n. 2514 del 17/04/1980 con riferimento alla figura del procacciatore di affari, si concreta nella più limitata attività di chi raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole alla ditta dalla quale ha ricevuto l’incarico di procurare tali commissioni, ma senza vincolo di stabilita ed in via del tutto occasionale, anche se, poi, per la relativa disciplina, può farsi ricorso analogico, alla normativa concernente il contratto di agenzia. In senso conforme Cass. n. 870 del 1977 e n. 5849 del 08/10/1983).

Pertanto, appaiono infondate anche le doglianze svolte per il terzo motivo.

Dunque, il ricorso va respinto, con conseguente condanna della soccombente al rimborso delle relative spese. Stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, la società è tenuta anche al versamento dell’ulteriore contributo unificato, ricorrendone i presupposti di legge.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della parte controricorrente in euro 8.000,00 (ottomila/00) per compensi professionali ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13

INDENNITA’ EX ART. 1751 C.C. – DECRETO INGIUNTIVO EMESSO CON CLAUSOLA DI PROVVISORIA ESECUZIONE

La riluttanza delle mandanti a “concedere” l’indennità ex art. 1751 cc (che alcuni agenti identificano nella meritocratica), tanto osteggiata in sede di chiusura rapporto, inizia a vacillare.

Le mandanti si sono sempre trincerate dietro l’assunto “se pensi che ti spetta vai davanti al giudice“, ovviamente certe che l’accertamento del diritto sarebbe dovuto passare da un lungo giudizio ordinario, come molti avranno avuto il dispiacere di sperimentare.

Finalmente i Tribunali hanno emesso il primo decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per l’indennità ex art. 1751 cc (meritocratica).

Avvocato costituito nel procedimento Avv. Andrea Abbruzzese Tel 3313350557

Per info sul provvedimento

CONTRATTO DI AGENZIA E CONTRATTO DI PROCACCIATORE D’AFFARI

caratteri distintivi del contratto di agenzia sono la continuità e la stabilità dell’attività dell’agente di promuovere la conclusione dei contratti per conto del preponente nell’ambito di una determinata zona territoriale, realizzando in tal modo con quest’ultimo una collaborazione professionale autonoma, continua, con risultato a proprio rischio e con l’obbligo naturale di osservare, oltre alle norme di correttezza e di lealtà, le istruzioni ricevute dal preponente. Tale contratto si differenzia da quello del procacciatore d’affari il quale svolge la sua attività senza vincolo di stabilità e in via del tutto episodica, raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole all’imprenditore da cui ha ricevuto l’incarico di procurare tali commissioni.

Dunque, mentre l’attività dell’agente di commercio è stabile, quella del procacciatore d’affari è occasionale, in quanto dipende esclusivamente dalla sua iniziativa. Nel caso di specie, i contratti di collaborazione stipulati tra i ricorrenti e una società, in considerazione delle concrete modalità di svolgimento del rapporto, senza alcun vincolo di stabilità e con piena libertà di orario e di scelte organizzative, sono stati ricondotti nell’ambito del contratto di agenzia. Corte appello Roma sez. lav., 09/02/2018, n.448

CONTRATTO D’AGENZIA E LAVORO SUBORDINATO

Il recesso dal contratto di agenzia  da parte o committente non puo trovare giusta causa nella minaccia dell’agente di far valere i propri diritti rispetto alle  prestazioni lavorative  aggiuntive di tipo subordinato  .

 Lo afferma la Cassazione con la sentenza 3917  del 17.2.2020  accogliendo il  (doppio ) ricorso di una lavoratrice con contratto di agenzia che  chiedeva di essere regolarizzata e remunerata per il lavoro subordinato che aveva svolto    parallelamente a quello di agenzia. La società aveva comunicato il recesso dal contratto di agenzia per giusta causa  ma tale  definizione non aveva fondamento  secondo la ricorrente che portava prove testimoniali del lavoro svolto e chiedeva  il risarcimento della somma di euro 260.000,00 per retribuzioni non corrisposte, ferie, permessi non goduti e TFR.  Sia il Tribunale che la Corte di appello avevano respinto il ricorso , considerando sussistente la giusta causa  ex art. 2119 cod. civ.  perche la pretesa avanzata dalla ricorrente  veniva considerata “pesante ” da primo giudice .

 La Corte di appello di Brescia, dice la Cassazione,  errava nel respingere l’impugnazione basata  sulle  seguenti considerazioni:

” le pretese formulate dall’appellante si fondavano su una rilettura del rapporto  in essere, tale da portare a rivendicare corrispettivi di ingente entità, nascenti  da fattispecie incompatibili, ossia la coesistenza del contratto di agenzia e del rapporto di lavoro subordinato; in tal senso doveva essere letta l’argomentazione del primo giudice;
– si era in presenza di un conflitto tra le rivendicazioni avanzate, restando  irrilevante che le pretese avessero costituito oggetto di due distinte domande;
– può essere richiamato in via analogica l’art. 1438 cod. civ., fattispecie che si  realizza quando il fine ultimo perseguito da una delle parti consiste nella  realizzazione di un risultato abnorme, incompatibile con i principi giuridici;
– nel caso di specie, è giuridicamente inconcepibile che un unico rapporto sia  caratterizzato dalla compresenza di due fattispecie diverse per natura e  presupposti e dia luogo a pretese di natura economica che non possono essere  cumulate;
– la minaccia di far valere il diritto di corrispettivi asseritamente spettanti per  entrambe le fattispecie, del tutto differenti e non compatibili tra loro, non  poteva che essere considerata ingiusta ed iniqua e come tale costituire giusta  causa di recesso da parte del soggetto destinatario di tali rivendicazioni. 

La cassazione  respinge queste argomentazioni  sulla presentazione formale del ricorso e ricorda  invece che  effettivamente la  minaccia di far valere un diritto puo costituire  causa di annullamento del contratto  ma solo se punta ad risultato iniquo ed abnorme, diverso   dall’affermazione del diritto stesso, o nell’ipotesi nella quale la minaccia abbia effettiva funzione intimidatoria della condotta, volta a condizionare la volontà dell’altro contraente . Situzione non verificatasi nel caso in oggetto.

La sentenza viene quindi cassata e rinviata alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione.

LA SENTENZA

  Civile Sent. Sez. L Num. 3917 Anno 2020 Presidente: DI CERBO VINCENZO Relatore: BLASUTTO DANIELA Data pubblicazione: 17/02/2020 2019 4014 SENTENZA sul ricorso 27555-2018 proposto da:

SCAPIN GIOVANNA, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MELLINI 7, presso lo studio dell’avvocato LUCIA ZACCAGNINI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO DELLA LUNA;

– ricorrente –

contro

SOCIM S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI l, presso lo studio dell’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ENRICO BERTONI e FILIPPO VITTORIO RONDANI;

– controricorrente – E SUL RICORSO SUCCESSIVO SENZA NUMERO DI R. G.

proposto da:

SCAPIN GIOVANNA, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MELLINI 7, presso lo studio dell’avvocato

LUCIA ZACCAGNINI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO DELLA LUNA;

– ricorrente successivo – nonchè contro

SOCIM S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI ], presso lo studio dell’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ENRICO BERTONI e FILIPPO VITTORIO RONDANI;

– controricorrente al ricorso successivo – avverso la sentenza n. 62/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 13/07/2018, R. G. N. 476/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/12/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA SANLORENZO, che ha concluso pe il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MARCO DELLA LUNA;

udito l’Avvocato BENEDETTA LUBRANO per delega verbale avvocato DANIELE MANCA BITTI.

FATTI DI CAUSA

1. Giovanna Scapin adiva il Giudice del lavoro del Tribunale di Brescia per ottenere la condanna della società Socim s.p.a. al pagamento di spettanze connesse al recesso, che assumeva privo di giusta causa, dal rapporto di agenzia da parte della società resistente, nonché per ottenere il pagamento delle provvigioni maturate durante il rapporto e per l’accertamento dello svolgimento di mansioni ulteriori rispetto a quelle proprie dell’agente, da qualificare come relative ad un rapporto di lavoro subordinato, che si affiancava a quello di agenzia, con conseguente condanna della società convenuta al pagamento, per tale titolo, della somma di euro 260.000,00 per retribuzioni non corrisposte, ferie, permessi non goduti e TFR.

2. Con sentenza parziale il Tribunale di Brescia dichiarava la nullità del ricorso introduttivo in relazione alle domande correlate al dedotto svolgimento di mansioni ulteriori sotto il vincolo della subordinazione. Avverso tale sentenza non veniva proposta dalla ricorrente riserva di appello ai sensi dell’art. 340 c.p.c.. Proseguito il giudizio, all’esito della prova testimoniale il giudice adito accoglieva parzialmente le domande avanzate alla Scapin e riteneva da giusta causa il recesso della società resistente. Seguiva sentenza definitiva, con la quale la società convenuta veniva condannata al pagamento, in favore della ricorrente, delle differenze dovute per provvigioni.

3. Giovanna Scapin proponeva appello avverso la sentenza definitiva per impugnare la statuizione con cui era stata ritenuta sussistente la giusta causa ex art. 2119 cod. civ. unicamente nella pretesa, avanzata dalla ricorrente e qualificata “pesante” dal primo giudice, diretta al riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato in aggiunta al rapporto di agenzia, ossia una pretesa di regolarizzazione di un rapporto di lavoro.

4. La Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 62/2018, respingeva l’impugnazione sulla base delle seguenti considerazioni:

– le pretese formulate dall’appellante si fondavano su una rilettura del rapporto in essere, tale da portare a rivendicare corrispettivi di ingente entità, nascenti da fattispecie incompatibili, ossia la coesistenza del contratto di agenzia e del rapporto di lavoro subordinato; in tal senso doveva essere letta l’argomentazione del primo giudice;

– si era in presenza di un conflitto tra le rivendicazioni avanzate, restando irrilevante che le pretese avessero costituito oggetto di due distinte domande;

– può essere richiamato in via analogica l’art. 1438 cod. civ., fattispecie che si realizza quando il fine ultimo perseguito da una delle parti consiste nella realizzazione di un risultato abnorme, incompatibile con i principi giuridici;

– nel caso di specie, è giuridicamente inconcepibile che un unico rapporto sia caratterizzato dalla compresenza di due fattispecie diverse per natura e presupposti e dia luogo a pretese di natura economica che non possono essere cumulate;

– la minaccia di far valere il diritto di corrispettivi asseritamente spettanti per entrambe le fattispecie, del tutto differenti e non compatibili tra loro, non poteva che essere considerata ingiusta ed iniqua e come tale costituire giusta causa di recesso da parte del soggetto destinatario di tali rivendicazioni.

5. Per la cassazione di tale sentenza Giovanna Scapin ha proposto due distinti ricorsi, il primo, articolato in cinque motivi, notificato il 15 settembre 2018, cui ha fatto seguito in data 30.10.2018 il deposito di istanza di ammissione a gratuito patrocinio. Su tale ricorso la società si è difesa con controricorso notificato in data 29.10.18.

5.1. Con il secondo ricorso, basato su dieci motivi, notificato 1’8 novembre 2018, la Scapin ha inteso “ovviare a possibili vizi formali del medesimo”. Il secondo ricorso è stato depositato il 22 novembre 2018. Ha fatto seguito un secondo controricorso della società, in cui si è eccepita l’inammissibilità del nuovo ricorso.

• 6. La ricorrente ha altresì depositato memoria di replica ex art. 378 cod. proc. civ..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, quanto alla ammissibilità dei ricorsi, va premesso che la sentenza impugnata è stata depositata il 13.7.2018 e trova applicazione ratione temporis l’abbreviazione del c.d. termine lungo a sei mesi ex art. 327 cod. proc. civ.. La scadenza del termine per impugnare era dunque il

13.1.2019, da cui l’ammissibilità del primo ricorso.

Anche il secondo ricorso è ammissibile, in quanto notificato l’8.11.18 e dunque tempestivo, oltre che rispetto al termine lungo (sei mesi decorrenti dal

13.7.2018), altresì rispetto al termine di sessanta giorni decorrenti dalla notifica del primo ricorso (15.9.2018). Non è intervenuta alcuna pronuncia di inammissibilità o improcedibilità del primo ricorso.

1.1. Nel caso in cui una sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, la seconda impugnazione deve essere notificata entro la scadenza del termine breve decorrente dalla notificazione della prima impugnazione, che dimostra la conoscenza legale della decisione da parte del ricorrente (Cass. S.U. n. 10266 del 2018). Nel caso in cui una sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, è ammissibile la proposizione del secondo, anche quando contenga nuovi e diversi motivi di censura, purché la notificazione dello stesso abbia avuto luogo nel rispetto del termine breve decorrente dalla notificazione del primo, e l’improcedibilità di quest’ultimo non sia stata ancora dichiarata, non comportando la mera notificazione del primo ricorso la consumazione del potere d’impugnazione (cfr. Cass. n. 21145 del 2016; conforme Cass. n. 11513 del 2018).

1.2. Nel caso in esame, non sono stati neppure introdotti con il secondo ricorso nuovi motivi, ma si è provveduto a scindere i motivi unitari, originariamente formulati, nelle articolazioni riferibili agli specifici vizi denunciati. Il primo ricorso recava cinque motivi, mentre il secondo, sostitutivo del precedente, è articolato su dieci motivi, con riguardo alle medesime violazioni di legge.

2. Tanto premesso, esaminando il secondo ricorso, sostitutivo del primo, si rileva che, con il primo motivo, è denunciata violazione degli artt. 24 e 36 Cost. e falsa applicazione degli artt. 1751 e 2119 cod. civ.. Si contesta che possa costituire giusta causa di recesso la formulazione di una rivendicazione economica, da parte del lavoratore, anche se particolarmente onerosa, stante il preminente diritto costituzionale di cui all’art. 24 Cost.. La ricorrente aveva chiesto di essere regolarizzata e remunerata per il lavoro dipendente che aveva svolto per la società in aggiunta a quello di agenzia. Neppure il Tribunale aveva fatto allusioni ad una incompatibilità con le altre pretese avanzate.

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 132 n. 4 e 118 cod. proc. civ. per avere la sentenza impugnata affermato di condividere l’assunto del primo giudice circa la pretesa incompatibilità delle richieste epistolari della lavoratrice, mentre invece il Tribunale non aveva fatto tale affermazione limitandosi ad affermare che le richieste erano soltanto “pesanti”.

4. Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1751 e 2119 cod. civ. in quanto il giudice di appello ha affermato che la ricorrente aveva avanzato una domanda basata su presupposti tra loro incompatibili, mentre la ricorrente aveva inequivocabilmente dedotto non uno, bensì due rapporti di lavoro coesistenti, quello di lavoro subordinato in aggiunta e coesistente a quello di agenzia.

5. Con il quarto motivo si denuncia falsa applicazione degli artt. 175t.e 2119 cod. civ., dell’art. 5 legge 204 del 1985 e violazione degli artt. 1 e 36 Cost. L’incompatibilità giuridica prospettata dalla sentenza allude all’art. 5, comma 3, della legge 204 del 1985 che disciplina la professione degli agenti di commercio e che dichiara che la condizione di lavoratore dipendente è incompatibile con l’iscrizione all’albo degli agenti di commercio. Tuttavia ciò non comporta che, ove ciò nei fatti avvenga, ne consegua la perdita dei diritti spettanti al dipendente, perché ciò contrasterebbe con gli artt. 1 e 36 Cost..

6. Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ. perché non è stato motivato – o comunque non in modo comprensibile – come la ricorrente possa avere prospettato con riguardo ad un unico rapporto di lavoro pretese in parte riferibili al rapporto di agenzia e in parte riferibili al rapporto di lavoro dipendente. Si trattava di due distinte domande con diverse causae petendi.

7. Con il sesto motivo si denuncia violazione degli artt. 132 n.4 e 118 disp. att. cod. proc. civ. per non avere la Corte di appello esaminato il fatto decisivo costituito dall’avere la ricorrente reso prestazioni ulteriori rispetto ai compiti di agente, ossia prestazioni esulanti dallo schema negoziale dell’agenzia. Si denuncia altresì la violazione delle medesime disposizioni per avere la sentenza omesso di motivare in ordine al procedimento logico-giuridico con cui era arrivata a ritenere pretestuose ed inique le richieste di un compenso per prestazioni aggiuntive diverse rispetto a quelle rivendicate per lo svolgimento dell’attività di agente.

8. Con il settimo motivo si denuncia violazione degli artt. 1751 e 2119 cod. civ. nonché dell’artt. 132 n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. nella parte in cui la sentenza ha affermato che le due pretese erano state avanzate con due azioni giudiziali distinte sennonché al tempo del recesso, ossia al 30 marzo 2012, nessuna azione giudiziaria era ancora stata avviata in quanto l’unico ricorso, relativo ad entrambe le pretese, venne depositato il 19 ottobre 2012. Dunque il recesso non poteva fondarsi sulla circostanza dell’introduzione del giudizio, che a tale data non era ancora avvenuta. La Corte ha applicato falsamente gli artt. 1751 e 2119 cod. civ., che presuppongono un fatto verificatosi prima del recesso e non dopo di esso.

9. Con l’ottavo motivo si denuncia violazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., in quanto con la medesima motivazione oggetto del precedente motivo la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che sussistesse la giusta causa di recesso, mentre la data del recesso era anteriore a quella dell’avvio delle cause di lavoro per cui il giudizio espresso dal giudice di appello deve ritenersi del tutto assente in ordine alla giusta causa di recesso.

10. Con il nono motivo si denuncia falsa applicazione dell’art. 1438 cod. civ. nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto applicabile tale norma per analogia. Innanzitutto, ai fini dei criteri di applicabilità dell’analogia di cui al secondo comma dell’art. 12 cod. civ. le lacune della disciplina codicistica del rapporto di agenzia di cui agli artt. 1742 e seguenti cod. civ., per costante giurisprudenza, sono integrate dall’applicazione analogica delle norme sul rapporto di lavoro dipendente ed in particolare, per quanto riguarda il -recesso, dall’art. 2119 cod. civ.. In secondo luogo, nessuna analogia è ravvisabile nella concreta fattispecie rispetto all’ipotesi regolata dall’art. 1438 cod. civ.. Tale norma tutela la libera volontà delle parti nel contrarre; essa concerne la fase genetica dei contratti e contempla un vizio della volontà pattizia comportante la possibilità di annullare il contratto per un vizio scaturente da un ricatto. Nel caso di specie, invece, non viene in considerazione la stipulazione di alcun contratto, né un vizio della volontà, né alcuna causa di annullabilità. Neppure potrebbe invocarsi l’art. 1438 cod. civ. come espressione del generale principio inteso a sanzionare atti emulatori. Infatti non vi è stato alcun accertamento che l’azione della ricorrente, attinente al rapporto di lavoro dipendente, fosse infondata o temeraria e comunque restano prevalenti i diritti costituzionali di

tutela del lavoro garantiti dall’art. 36 Cost., anche in relazione all’art. 1 Cost.. 11. Con il decimo motivo si censura la sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e violazione dell’art. 6

CEDU, dell’art. 111 comma 6, Cost. E’ nulla la sentenza di appello, funzionalmente inesistente, ossia inidonea a raggiungere il suo scopo, per non avere spiegato le ragioni della decisione Seppure graficamente esistente, la sentenza è assente o meramente apparente e trova applicazione nel caso di specie l’orientamento interpretativo secondo cui (Cass. 10157 del 2017 e 1861 del 2018) la motivazione tautologica o apodittica diviene meramente apparente.

12. E’ fondato il nono motivo, restando assorbito nel relativo accoglimento l’esame dei restanti.

12.1. Premesso che l’eventuale “conflittualità” in punto di ricostruzione giuridica del rapporto (o dei due coesistenti rapporti, secondo la prospettazione della ricorrente) è questione rilevata in sede giudiziale e non poteva costituire, in tali termini, una ragione posta a base del recesso, all’evidenza anteriore alla introduzione del giudizio, tale preliminare rilievo non comporta comunque la nullità della sentenza per essere questa comunque argomentata in ordine al richiamo dell’art. 1438 cod. civ., su cui la sentenza si fonda per avvalorare la tesi della preponente della giusta causa di recesso.

13. Sul punto, il ricorso per cassazione è fondato e va accolto.

13.1. A norma dell’art. 1438 cod. civ., “la minaccia di far valere un diritto può

essere causa di annullamento del contratto solo quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti”. Non solo tale situazione si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto medesimo, sia iniquo ed esorbiti dall’oggetto di quest’ultimo, e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall’ordinamento (v. Cass. 20305 del 2015, v. pure Cass. 17523 del 2011, n. 28260 del 2005), ma la minaccia rilevante ai sensi di legge è concretamente ravvisabile, sotto il profilo dell’effettiva funzione intimidatoria del comportamento, soltanto se venga prospettato un uso strumentale del diritto o del potere diretto al condizionamento della volontà dell’altro contraente (o del dichiarante negli atti unilaterali) (cfr. Cass. n. 6426 del 1996).

13.2. Nel caso in esame, la Corte di appello ha ritenuto sussumibile la fattispecie concreta in quella astratta di cui all’art. 103 cod. civ., ritenuta applicabile per analogia, senza chiarire quale fosse il condizionamento della volontà del destinatario della richiesta e se vi fosse un negozio, posto in essere dalla preponente, viziato e suscettibile di annullamento per tale motivo.

13.3. Per quanto risulta dalla sentenza impugnata, è stata invece la preponente che, a fronte della rivendicazione avanzata dalla Scapin, ha esercitato il proprio potere di recesso, la cui giusta causa ex art. 2119 cod. civ. – venuto meno il fondamento giuridico su cui la decisione impugnata si fonda, a

fronte di una situazione che, all’evidenza, esula dallo schema legale delineato 14

dall’art. 1ctr; cod. civ. – resta ancora da accertare in giudizio.

14. Deve quindi essere cassata la sentenza impugnata e rimessa al giudice di rinvio la questione della verifica della sussistenza o meno della giusta causa di recesso ex art. 2119 cod. civ..

14.1. Si designa quale giudice di rinvio la Corte di appello di Brescia in diversa composizione, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il nono motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2019

Il Consigliere est.

INDENNITA’ QUESTE SCONOSCIUTE………

Dopo svariati incontri, riunioni, convegni cioè che viene in risalto e anche ciò che gli agenti fanno trasparire dalle loro domande è la poca conoscenza, o assoluta indifferenza, dei diritti dopo la cessazione del rapporto.

Indennità suppletiva di clientela, indennità sostitutiva del preavviso, indennità d’incasso, indennità di non concorrenza post contrattuale, FIRR, indennità ex art. 1751 cc (che alcuni conoscono come meritocratica), quest’ultima molto avversata dalla mandanti, sono le indennità per cui ogni agente dovrebbe soffermarsi quando un rapporto di agenzia tende a “rompersi” o sia prossimo a “rompersi” (come mi è stato definito da un agente l’interruzione del rapporto).

Ebbene sì, è il caso che ogni agente valuti prima di chiudere un rapporto, o non appena avverta un comportamento ostile nei sui confronti, quali siano le indennità che potrebbero spettargli e quali passi seguire o non seguire per non perderle.

Un breve spunto di riflessione!!!!!!!!!